Mimma Grillo

Messico. Secondo incontro delle Donne che Lottano. Una tre giorni, un solo tema, la violenza contro le donne. “Se le lavoratrici per le loro giuste proteste bloccano una strada o fanno uno sciopero vengono condannate, perché quello che importa al sistema è solo il proprio profitto, non la vita, e se la vita è quella di una donna vale ancora meno”. “Dicono che c’è equità di genere, che si prendono in considerazione le donne, ma continuano ad ammazzarci”. “Il diritto alla vita e a tutti gli altri diritti che meritiamo non ce li regalerà nessuno, né l’uomo violento, né quello buono e ammodo, e il nostro dovere come donne in lotta è di proteggerci e difenderci con tutti i mezzi che abbiamo, anche con il nostro corpo”. Il Messico è vicino. E allora, cosa si aspetta ancora per stare unite nella lotta? Cosa si aspetta ancora per munirsi di arco e frecce?

Non è ancora giorno quando partiamo da San Cristobal con il pulmino guidato dal nostro fidato autista Roberto. È sempre un’emozione forte attraversare i bagliori dell’alba tra il verde surreale della sierra. Il caffè rimediato lungo la strada verso Altamirano smorza sonno e freddo. A metà mattinata arriviamo davanti al Semillero (letteralmente “semenzaio”) “Huellas del Caminar de la Comandanta Ramona” nei pressi del Caracol di Morelia. È il 27 dicembre 2019, siamo 11 donne di diverse età provenienti da diverse città italiane, tutte collegate all’Associazione Ya Basta. Davanti all’ingresso c’è un grande cartello giallo: Prohibido entrar Hombres (vietato l’ingresso agli uomini). Roberto ci deve lasciare qui. Proteggono la zona tante miliziane e insurgentas armate di archi e frecce. E davanti al cartello una zapatista con la divisa dell’EZLN “color cafè” e il paliacate (il simbolico fazzoletto rosso che copre la parte inferiore del viso) sta ferma armata di arco colorato e frecce: questa è l’arma scelta, in questo secondo incontro (il primo si è svolto a marzo 2018) delle Donne che Lottano, a simboleggiare la protezione dovuta a tutte le donne, soprattutto alle più deboli. Ed è un camioncino guidato da una donna con paliacate che trasporta noi e i nostri pesantissimi zaini fino al dormitorio che ci viene assegnato. Nel Semillero c’è un grande fermento. Decine di donne gestiscono cucine e servizi: pentoloni fumanti di brodo o tamales, banchetti di frutta, il “Comedor de las mujeres que somos”, i bagni con le lunghe e ordinate file, la grande vasca da cui attingere l’acqua e lo spiazzo antistante dove donne armate di secchi e scope puliscono senza tregua. E poi ci sono le ragazze dei “Tercios Compas” (la rete zapatista che si occupa di realizzare la comunicazione con media autonomi). Abbiamo appena il tempo di sistemare i nostri sacchi a pelo nel dormitorio fatto di assi di legno e lamiera sul tetto. Ci lasciamo addosso scarponi e maglioni pesanti sotto le giacche a vento (di notte la temperatura è molto bassa) e andiamo ad assistere all’atto politico sullo spiazzo davanti al “templete”, una sorta di auditorium coperto che domina dall’alto tutto il Semillero. Centinaia di donne, tutte con la divisa militare dell’EZLN e con arco e frecce, arrivano di corsa e si dispongono geometricamente attorno ad una bambina accovacciata al centro dello spazio, rappresentando così la difesa armata, fatta con i corpi ma anche con l’arco e le frecce, della bambina. Ognuna di loro solleva più volte simbolicamente il proprio arco verso l’alto. È limpidissimo il cielo azzurro su di noi, mentre i raggi impietosi di un sole già alto bruciano sui volti (che sofferenza i nostri maglioni...!). È la Comandanta Amada a parlare dal templete che sovrasta lo spiazzo. Ci informa che si sono registrate all’incontro 3.259 donne e 95 bambini (tra le tende colorate montate a centinaia davanti ai dormitori ho visto sgaiattolare anche bambini molto piccoli) provenienti da 49 paesi. Amada dà il benvenuto a tutte, soprattutto a quelle che vengono da “geografie” molto lontane, alle insurgentas e miliziane che hanno il compito in questi giorni di prendersi cura di noi tutte, alle donne “di giudizio” in quanto più anziane (“perché la loro canutezza, le loro rughe, i loro acciacchi non li hanno conseguiti vendendosi al sistema patriarcale e arrendendosi al machismo”) alle quali spetta di rispettare le più giovani, sia adulte che bambine, perché anche a loro toccherà questa lotta.

IL NEMICO È IL SISTEMA CAPITALISTICO

“Tutte – dice Amada –indipendentemente dal calendario di cui siamo cariche e dalla geografia in cui viviamo, siamo nella stessa situazione: la lotta per i nostri diritti, e in primo luogo per il diritto alla vita, ci impegna tutte. Nell’ultimo anno, dopo il nostro primo incontro, lo stato delle cose è molto peggiorato per le donne, per questo il nostro secondo incontro è stato convocato con un solo tema, la violenza contro le donne. Dicono che c’è equità di genere, che si prendono in considerazione le donne, ma continuano ad ammazzarci, non solo, ma ci ordinano pure di comportarci… bene. Se le lavoratrici per le loro giuste proteste bloccano una strada o fanno uno sciopero vengono condannate, perché quello che importa al sistema è solo il proprio profitto, non la vita, e se la vita è quella di una donna vale ancora meno”. Pone più volte l’accento, Amada, sul fatto che il sistema permette solo ciò che gli concede guadagno, perché è il sistema capitalista che oggi impera e che coincide pienamente con il sistema patriarcale, e insiste anche sul fatto che il patriarcato comanda anche quando “il capo” è una donna, perché è il sistema che è patriarcale in quanto capitalista. Da qui la necessità di lottare non solo contro il machismo e il patriarcato, ma soprattutto contro il sistema capitalista che li genera. L’altra esigenza su cui insiste Amada è quella di organizzare la lotta perché, dice, “il diritto alla vita e a tutti gli altri diritti che meritiamo non ce li regalerà nessuno, né l’uomo violento, né quello buono e ammodo, e il nostro dovere come donne in lotta è di proteggerci e difenderci con tutti i mezzi che abbiamo, anche con il nostro corpo, e di insegnare anche alle donne di domani, le bambine, a crescere in difesa”. Dice poi con orgoglio che nelle comunità zapatiste nell’ultimo anno non c’è stata nessuna donna assassinata o desaparecida. Prima di chiudere il suo intervento raccomanda alle donne di “non perdere tempo in sciocchi litigi” perché il nemico è esterno e comune (“Siamo in guerra e la nostra vita è in pericolo”). Illustra infine il programma dei tre giorni di incontro: il primo giorno sarà dedicato alle denunce di violenza, il secondo all’organizzazione delle donne, il terzo all’arte, alla cultura e alla festa. C’è stata la 2^ edizione del Festival del Cinema nell’auditorium di legno dedicato alla balena Moby Dick, in uno dei nuovi “caracoles”, che ha visto una settimana di proiezioni e laboratori gestiti da attori e registi insieme ai Tercios Compas che hanno gestito i media, c’è stata la 1^ edizione del CompArte di Danza, la 4^ assemblea del Congresso Nazionale Indigeno, il Forum in difesa del territorio e della Madre Tierra, adesso c’è il 2° incontro delle Donne che Lottano e il 31 si celebrerà il 26° anniversario del levantamiento zapatista. Il tutto viene organizzato e letto come un unico percorso, “Combo por la vida” viene definito, come una sorta di ipertesto in cui niente è isolato e in cui tutto vuole raccontare la complessità necessaria per combattere “l’idra capitalista” che pervade il potere contemporaneo.

In Messico, dopo l’elezione nel 2018 del Presidente Andres Manuel Lopez Obrador, detto AMLO, fondatore del MORENA – Movimento di Rigenerazione Nazionale (a cui ha aderito buona parte della sinistra messicana, cosa che gli zapatisti non hanno condiviso,

ma anche molti transfughi della destra messicana), sono state portate avanti dal governo le politiche neoliberiste dei megaprogetti (corridoio interoceanico di trasporto merci nell’istmo di Tehuantepec, Tren Maya negli Stati del sud, sfruttamento delle risorse idriche e del sottosuolo nel Proyecto Integral Morelos) che stanno devastando territori e comunità e che hanno di fatto creato una nuova vera e propria “guerra capitalista” contro gli indigeni e contro la Madre Tierra, facendo diventare questa legislatura, annunciata da AMLO trionfalmente come la legislatura della 4^ Trasformazione, una legislatura di distruzione, la 4^ distruzione (il numero 4 segue tre precedenti fondamentali momenti della storia del Messico). L’offensiva è congiuntamente portata avanti da imprese trasnazionali, istituzioni messicane e crimine organizzato. E accanto a tutto questo (corollario naturale delle dinamiche capitaliste del sistema) cresce e dilaga in tutto il Messico la violenza contro le donne. Già a San Cristobal ho notato le tante scritte sui muri contro i femminicidi (i dati che ho consultato parlano di 742 donne uccise nel 2017, 884 nel 2018, 726 nei primi 9 mesi del 2019, ma questi sono solo i dati ufficiali, non comprendono sparizioni e femminicidi non riconosciuti), Ma ciò che dà la misura della situazione è l’ascolto delle denunce delle donne durante i lavori dell’incontro. Una dopo l’altra tante donne vengono al centro del “templete” a denunciare le violenze (domestiche e non) subite. All’inizio noi italiane, soprattutto le meno giovani, abbiamo l’impressione di ritrovare le atmosfere dei percorsi di autocoscienza degli anni Settanta. Le donne che denunciano è come se per la prima volta abbiano trovato la forza di raccontare. È un atto liberatorio. Tutte alla fine piangono. Per tutte c’è un abbraccio collettivo e un grido: “no eres sola”. La tensione si fa sempre più alta. Si fa altissima quando a prendere la parola è una donna con i capelli bianchi raccolti sulla testa ma con un volto ancora giovane. Ha la voce ferma e determinata. Non piange. Si chiama Irinea Buendía Cortés.

Racconta la storia della figlia Mariana Lima Buendía, studentessa di diritto uccisa nel 2010, a 26 anni, dal marito poliziotto che ha poi inscenato il finto suicidio. E come suicidio, per impiccagione, viene archiviato il caso. È stata la tenacia della madre Irinea a far sì che venisse fuori la verità: con la sua lotta è riuscita a fare accogliere nel 2013 una richiesta di giudizio “de amparo”, il giudizio è stato deferito cioè alla Suprema Corte di Giustizia Messicana, l’organo che normalmente si occupa della “costituzionalità” delle norme, la cui competenza è stata estesa alla tutela dei diritti fondamentali.

TAL’AT, SALDREMOS, CE LA FAREMO

Si è giunti così alla sentenza del marzo 2015 che, prima sentenza della Suprema Corte relativa ad un femminicidio, è diventata in Messico sia atto di riconoscimento giuridico del diritto delle donne ad una vita libera da violenze e discriminazione, sia statuizione giuridica dell’obbligatorietà, per investigatori e giudici, dell’applicazione della prospettiva di genere, sia strumento definitivo di decisione in materia di violazione dei diritti umani. Abbraccio Irinea quando finisce il suo racconto. Le dico che è una meravigliosa, forte, donna. E solo in quel momento lei comincia a piangere ripetendo “no, non sono forte”. L’esempio di Irinea è stato seguito da altre madri, come María Patricia Becerril Gómez che racconta dell’uccisione nel 2018, a Puebla, della figlia Zyanya Estefanía Figueroa Becerril, 26 anni, medico. Anche in questo caso l’omicidio è stato camuffato da suicidio. E la stessa cosa è avvenuta nel caso di Lesvy Berlín Rivera Osorio, trovata impiccata col filo del telefono in una cabina telefonica vicina all’Università di Città del Messico. Raccontano la storia un gruppo di amiche che tengono in mano un grande striscione che chiede verità. Le denunce continuano con ritmo incalzante: una donna cilena racconta delle violenze politico-sessuali subite in Cile dalle donne della comunità mapuche. Parla anche una ragazza nicaraguense arrivata con una carovana di migranti (tutto il Messico vive la situazione del nostro Mediterraneo essendo diventato per volere di Trump la zona cuscinetto che deve fermare i migranti molto più a sud del confine effettivo): fa un’interessante similitudine tra i megaprogetti che violentano i territori e commettono ecocidio e la violenza del patriarcato e spiega come sia collegata la difesa della Madre Tierra alla difesa della donna. Racconta anche di come molte “líderes” donne in Guatemala attualmente vengono uccise. Ad un certo punto viene letto un documento inviato da un gruppo di donne palestinesi di Hebron: il loro movimento l’hanno chiamato Tal’at (“saldremos” in spagnolo, “ce la faremo” in italiano). Raccontano di lottare contro il fanatismo islamico e comunicano che in Palestina sono 84 le donne uccise nell’ultimo anno. Il loro messaggio dice con convinzione che la liberazione della Palestina passa per la libertà della donna. E c’è anche una donna curda che parla della lotta delle donne curde in prima fila nel Rojava per difendere il sistema del federalismo democratico che vede la libertà delle donne sempre collegata ad una totale equità di genere. Arriva poi una donna giovane, pacata, che con un filo di voce racconta la terribile esperienza da lei vissuta per una interruzione di gravidanza.

COMPAGNA E SORELLA NON SEI SOLA

Scopriamo così, noi italiane, cosa significa per una donna messicana affrontare una interruzione volontaria (ma non solo) di gravidanza. Il Messico è uno Stato Federale, quindi ogni singolo Stato ha sull’aborto una propria normativa: tranne che nello Stato di Città del Messico e nello Stato di Oaxaca (dove la depenalizzazione si è avuta solo a settembre scorso) in tutti gli altri Stati l’interruzione volontaria di gravidanza (ma spesso anche l’interruzione spontanea) è reato e le pene di detenzione oscillano tra i 15 giorni e i 6 anni. In qualche Stato come per esempio quello di Guanajuato (dove determinante è la presenza di sette protestanti reazionarie ma molto collegate al potere) l’aborto è considerato omicidio con l’aggravante della “relazione familiare”: la pena può arrivare anche a 30 anni. Migliaia ovviamente sono gli aborti clandestini e centinaia le donne che finiscono in carcere anche per aborti spontanei, parti prematuri ed emergenze ostetriche (spetta a loro dimostrare la non volontarietà dell’evento). Le denunce continuano per due giorni. Contestualmente vengono organizzati incontri seminariali nei vari capannoni. È difficile seguire tutto, ognuna sceglie l’argomento che più le interessa. Si arriva così all’ultimo giorno, quello dell’elaborazione delle proposte che saranno volte soprattutto alla individuazione di forme di relazione da mettere in atto tra tutte le organizzazioni di donne presenti, messicane e non, per intraprendere azioni collettive di difesa. Viene anche fissato l’appuntamento dell’8 marzo con l’invito alle donne che manifesteranno in tutte le piazze del mondo a portare in testa uno “chignon” nero in segno di lutto per tutte le donne uccise. È la Comandanta Jessica a guidare l’atto politico che segna la chiusura dell’incontro: “Non sei sola, compagna e sorella, abbiamo bisogno di verità, giustizia e libertà, e questo bisogno potremo conquistarlo solo se c’è chi ci protegge e difende e questo è il messaggio che le insurgentas e le miliziane ci hanno dato: rispondere alla chiamata della donna che chiede aiuto, sostenerla, proteggerla e difenderla con ciò che abbiamo, perciò chiediamo a insurgentas e miliziane che ci ripetano il loro messaggio” –dice Jessica mentre nello spiazzale antistante il “templete” centinaia di donne si aggregano a formare un enorme caracol… L’ultimo regalo che mi fa questo incontro internazionale delle donne che lottano è l’abbraccio che mi dà María De Jesús Patricio (detta Marichuy) che nel 2018 ha tentato di conquistare, come donna e come rappresentante degli indigeni, la candidatura a Presidente del Messico. Le faccio anche un’intervista, mi racconta tante cose, ma questa è… un’altra storia.