Un processo a Salvini non basta
Giulio Toscano
La Gregoretti è una nave militare italiana. Quindi territorio italiano. Al di là di ogni qualificazione giuridica, i migranti sulla Gregoretti sono stati costretti, contro la loro volontà, a sopravvivere per sei giorni in condizioni assolutamente precarie su una nave militare non attrezzata per i soccorsi in mare, priva di zone coperte e quindi senza protezione dal sole, con temperature diurne intorno ai 35 gradi, in spazi ristretti e in condizioni di promiscuità intollerabili, con un solo servizio igienico per oltre un centinaio di persone, delle quali alcune affette da scabbia o da tubercolosi polmonare. E tutto ciò per… difendere i confini della Patria. Purtroppo, un processo a Salvini non basta.
Che le cose non si stessero mettendo troppo male per lui, Matteo Salvini lo aveva intuito già alla prima udienza davanti al Gup di Catania, il 3 ottobre scorso. Poco importa che un nutrito gruppo di manifestanti avesse rumoreggiato per ore contro di lui a un centinaio di metri dal palazzo di giustizia. Sta di fatto che, uscito dall’aula, il senatore aveva potuto dire con aria soddisfatta di aver “sentito finalmente da un giudice che quel che si è fatto non si è fatto da soli”. Anticipazione di una sentenza di proscioglimento o piuttosto di un coinvolgimento giudiziario dell’intero Governo “Conte 1” nell’ affaire Gregoretti? Entrambe le prospettive si presentavano possibili e favorevoli, essendo ben verosimile che dalla audizione, disposta d’ufficio dal Gup, di Giuseppe Conte e di alcuni ex ministri, oltre che della attuale ministra degli interni (quest’ultima su richiesta della difesa) potesse scaturire qualche esito vantaggioso per la posizione processuale dell’indagato. Quando poi è ritornato a Catania il 12 dicembre, Salvini ha avuto la gradita sorpresa di veder campeggiare nell’aula bunker di Bicocca la scritta che il suo amico Roberto Castelli, non rimpianto ministro della Giustizia, nel lontano 2002 aveva deciso di far collocare in tutte le aule della Repubblica: “La Giustizia è amministrata in nome del popolo”. Veramente quella targa lì non doveva esserci: avrebbe dovuto essere rimossa sin dal 2006, quando Clemente Mastella aveva sconfessato l’iniziativa del suo predecessore. Evidentemente qualcuno aveva dimenticato di rimuoverla, e così Salvini ha potuto trarne conforto, avrà quasi sentito di “giocare in casa” …. Già, perché quella scritta, che non è altro che il primo comma dell’art.101 della Costituzione, riconnette certamente l’amministrazione della Giustizia alla sovranità popolare, che però – art.1 della Carta fondamentale – deve essere esercitata “nelle forme e nei limiti “della Costituzione stessa. “In nome del popolo” significa che la Giustizia non viene amministrata in nome del Re, come nello Statuto albertino, e nemmeno in nome del potere politico. Quella frase vuol significare che la magistratura è indipendente da ogni altro potere, ed infatti il secondo comma dello stesso art.101 - “i giudici sono soggetti soltanto alla legge” – viene tralasciato non certo per caso nella lettura leghista, secondo cui “in nome del popolo” significa “secondo ciò che vuole il popolo, cioè la maggioranza”. Concetto, peraltro, più volte esplicitato da Salvini, che dichiara: “Sono orgoglioso di quello che ho fatto da ministro… il giudizio vero (!) lo darà il popolo, non la magistratura”; e il contrappunto glielo fa Giorgia Meloni, parlando di “processo mostruoso”, perché “un ministro che fa quello che la maggioranza degli italiani gli ha chiesto di fare non può esser processato per questo”. Populismo puro; ma populismo eversivo, che si traduce nel rifiuto e nel disprezzo delle regole essenziali di uno stato costituzionale di diritto, caratterizzato dal controllo di legalità sull’azione del potere politico e dalla tutela dei diritti della minoranza. Sta di fatto che il 12 dicembre l’udienza nell’aula bunker si è risolta in una ulteriore iniezione di ottimismo per il senatore, che ha potuto legittimamente ironizzare sui “non ricordo” di Toninelli e tesaurizzare la deposizione dell’ex ministra della Difesa Elisabetta Trenta, la quale ha riconosciuto che la “linea” di chiedere e ottenere i ricollocamenti dei migranti prima di autorizzarne lo sbarco era effettivamente condivisa dal Governo “seppure con diverse sensibilità” (?).
CONVENZIONI INTERNAZIONALI IN MARE? NO GRAZIE
Le cose, tuttavia, non sono così semplici. Se anche le successive audizioni, soprattutto quella del Presidente del Consiglio, dovessero confermare una sostanziale condivisione dell’intero Governo della decisione di bloccare i 131 migranti a bordo della nave Gregoretti , impedendone lo sbarco dal 25 al 31 luglio 2019, e se – come è prevedibile dalla deposizione della ministra Lamorgese risulterà che le procedure in materia non sono, oggi, sostanzialmente diverse da quelle attuate dal governo “gialloverde”, restano, e non pare possano essere smentiti, alcuni fatti incontrovertibili:
1) che gli episodi dell’Alan Kurdi e dell’Ocean Viking, gestiti effettivamente dal governo “Conte 2” secondo la stessa linea dura inaugurata da Salvini, non riguardano navi militari italiane ma imbarcazioni delle ONG;
2) che invece la Gregoretti è una nave militare italiana. Ora è vero che con il decreto “Sicurezza bis” da lui fortemente voluto, l’allora ministro dell’Interno era riuscito ad attribuirsi la competenza a “vietare o limitare l’ingresso, il transito e la sosta di navi nel mare territoriale” modificando in tal senso, con l’art. 1-ter, il comma 11 del Dlgs 286/869; ma “il naviglio militare e le navi in servizio governativo non commerciale” erano espressamente esclusi da tali limitazioni. E la Gregoretti è per l’appunto una nave militare, più precisamente del Corpo delle Capitanerie di Porto-Guardia Costiera, che è uno dei corpi della Marina militare italiana. Quindi, sul fatto che Il ministro dell’Interno, non consentendo al competente Dipartimento per le libertà civili e per l’immigrazione (articolazione del suo Ministero) di esitare tempestivamente la richiesta di assegnare un POS (Place of Safety) alla Gregoretti, ma costringendola a stazionare in mare per sei giorni con il suo carico di migranti precedentemente soccorsi, abbia violato precise disposizioni delle Convenzioni internazionali in mare e le correlative norme di attuazione nazionali, non sembrerebbe esservi alcun dubbio. Così come è innegabile che da queste violazioni, comunque possano essere giustificate, siano direttamente derivate gravi lesioni ai diritti fondamentali dei migranti. Al di là di ogni qualificazione giuridica, essi sono stati infatti costretti, contro la loro volontà, a vivere, o meglio a sopravvivere per sei giorni in condizioni assolutamente precarie sotto ogni punto di vista, a bordo di una imbarcazione militare (quindi su territorio italiano) che, essendo destinata soltanto all’attività di vigilanza pesca, non era in alcun modo attrezzata per i soccorsi in mare, priva di zone coperte e quindi senza protezione dal sole, con temperature diurne intorno ai 35 gradi, in spazi ristretti e in condizioni di promiscuità intollerabili, con un solo servizio igienico per oltre un centinaio di persone, delle quali – come risulta dalle ispezioni effettuate - circa trenta risultavano affette da scabbia,altre da malattie infettive, una da tubercolosi polmonare . E tutto ciò con la risibile giustificazione, instancabilmente ripetuta da Salvini, della necessità di……difendere i confini della Patria.
E tuttavia, questo non significa che chi non apprezza il personaggio e la sua politica debba augurarsi la sua condanna, per di più per un reato come il sequestro di persona aggravato (l’unico contestato) che prevede una pena fino a 15 anni di reclusione.
DETENZIONE SENZA REATO
L’impressione, piuttosto – e purtroppo - è che con questa iniziativa giudiziaria si sia intrapreso, con le migliori intenzioni e sulla base di principi e valori non negoziabili (nientemeno che la dignità della persona umana) un percorso che, in ogni caso, non porterà nulla di buono alla vita democratica del nostro Paese. Se infatti Salvini venisse prosciolto in esito all’udienza preliminare, o se venisse rinviato a giudizio e poi assolto in dibattimento, sarebbe il suo trionfo, e ciò costituirebbe un pesante e pericoloso precedente oltre che una oggettiva sconfitta della Giustizia. Se venisse rinviato a giudizio e poi condannato, lui solo, per sequestro di persona, è facile prevedere la sollevazione di quella parte del “popolo” – che non sembra ahimè minoritaria, e magari subirebbe un ulteriore incremento – dalla quale l’ex ministro riceverebbe le patenti di capro espiatorio nonché di vittima e martire (della “magistratura politicizzata” e magari dei “comunisti” ), Se infine si dovesse pervenire (ipotesi meno probabile ma astrattamente possibile) ad un coinvolgimento dell’intero governo dell’epoca (e magari di quello attuale), ne nascerebbe una sorta di maxiprocesso che manterrebbe il paese, verosimilmente per qualche anno, in uno stato di tensione e di “guerra civile” chiaramente insostenibile. In tutti i casi, dunque, effetti fortemente e pericolosamente destabilizzanti.
Né la soluzione del caso Gregoretti, comunque esso si concluda, potrà comportare alcun progresso in ordine alla questione più generale e mai seriamente affrontata del trattamento dei migranti nelle strutture in cui vengono trasferiti dopo lo sbarco, e in generale del ‘diritto minore’ cui essi sono sottoposti, in dispregio ad ogni regola di uguaglianza, e in particolare degli articoli 3 e 13 della Costituzione italiana, e degli articoli 3 e 5 della Convenzione europea dei diritti umani. Nei cosiddetti hotspots, sorti in assenza di una specifica base legislativa, essi vengono trattenuti “de facto”, configurandosi così’ una situazione di “detenzione senza reato”, anche per lunghi periodi, ben oltre il limite massimo delle 48 ore e in condizioni di precarietà igienico-sanitaria. Di più: basta leggere i rapporti di Amnesty International o le Relazioni al Parlamento del Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale per avere contezza, ad esempio nei casi di rifiuto opposto al rilevamento delle impronte digitali, dell’uso di manganelli anche elettrici, di pestaggi, di umiliazioni sessuali, del diniego di cibo e di acqua.
Qui non c’entra soltanto Salvini; qui c’entra la cultura della “Fortezza Europa”, qui c’entra una società civile nella quale, come afferma il giurista Luigi Ferrajoli, alle vecchie soggettività di classe, basate sull’uguaglianza e sulle lotte comuni per comuni diritti, si sono sostituite soggettività politiche di tipo identitario, (“italiani contro migranti”, “prima gli italiani”), basate sulla identificazione delle identità diverse come nemiche. Su questi temi, che qualificano una democrazia degna di questo nome, la Sinistra dell’Europarlamento ha appena consegnato alla commissaria agli Affari Interni di quella istituzione due “Black books of pushbacks”, cioè”Libri neri del respingimento” : ben 1500 pagine in cui sono documentate violenze, torture, privazioni di libertà,umiliazioni di ogni tipo cui vengono sottoposti i migranti in vari Paesi della civilissima Europa,a cominciare proprio dall’Italia, con il tacito consenso dell’Unione Europea. Per far sì che tutto questo non continui ad accadere, purtroppo, un processo a Salvini non basta.
Sito ufficiale: http://lesiciliane.org/